Una storia di Alpini e Partigiani

La copertina del libro nella edizione del 2009, Fratelli Frilli Editori, Genova

Il racconto che segue narra una storia vera. Quella del passaggio di un intero battaglione di Alpini della Monterosa – il Vestone, comandato dal maggiore Paroldo, reduce di Russia – alla lotta partigiana con la Divisione Cichero, la più importante formazione che operò in provincia di Genova nel contesto della Sesta zona di operazioni. Fin dai primi tempi, il comandante della formazione partigiana fu Aldo Gastaldi, con il nome di battaglia di Bisagno.

Il racconto è tratto dal libro di Giovanni Battista Canepa (il partigiano Marzo) che fu testimone diretto della vicende della Divisione Cichero. Nella sua lunga vita, Canepa (1896-1994) ebbe modo di partecipare come combattente alla Prima guerra mondiale, nel corso della quale venne ferito e decorato, e, come volontario, alla guerra civile in Spagna. Fu anche vicesindaco di Genova, cronista sportivo inviato al Giro d’Italia per la «Gazzetta dello Sport» e fondatore di svariate riviste di interesse locale e culturale.

Un anniversario

Qualche anno fa, dovendosi celebrare l’anniversario della Liberazione, un giornale genovese pubblicò una foto che rappresentava la «resa» ai partigiani di un battaglione della Divisione Monterosa, il Battaglione Vestone. Si intendeva in questo modo ricordare un episodio della lotta di Liberazione ormai passato nel dimenticatoio; eppure si tratta di uno degli episodi più significativi che coronava lunghi mesi di tenace ardimento e di continui rischi affrontati dai partigiani della Divisione Cichero per avvicinare i loro avversari e convincerli a lottare per la libertà del nostro paese.

 Fu appunto in uno di questi tentativi che il comandante di una nostra pattuglia, mi pare che si chiamasse Dentice, e un suo compagno di cui mi sfugge il nome, furono fatti prigionieri e da qui ebbe inizio l’azione che indusse il comando della Cichero a intavolare trattative, accettando di incontrare il maggiore Paroldo che comandava il battaglione Vestone.

E anzitutto devo precisare che non si trattò di «resa» ma del «passaggio» di un battaglione degli alpini nelle file dei partigiani: alpini che poi e fino alla fine delle ostilità, si batterono al nostro fianco, seminando coi corpi dei loro caduti il cammino che ci portò alla liberazione di Genova.

***

[…] dopo il grande rastrellamento di agosto, il comando tedesco aveva affidato alla Monterosa il compito di presidiare la statale del Trebbia; e dunque due battaglioni s’erano insediati a Torriglia e Bobbio, all’inizio cioè e al termine della strada che segue il corso del fiume; mentre il terzo, il Vestone, si stabiliva al centro della vallata, e precisamente a Gorreto, nel castello dei principi Centurione, già sede del comando della Cichero.

Intanto le formazioni garibaldine, ormai attestate sui monti e nei paesini – Alpe, Fasce, Casanova – che sovrastano il corso del Trebbia, con continue incursioni sulla strada, la rendevano insicura. In uno di questi colpi di mano dei partigiani, venne catturato l’attendente del maggiore Paroldo: un ufficiale di carriera che godeva di grande prestigio e che, dopo la disastrosa ritirata dalla Russia, era stato internato coi suoi uomini in un «lager» tedesco.

La gente di Gorreto, dapprima diffidente e ostile, aveva finito con l’intrattenersi volentieri con lui a parlare dei partigiani che avevano presidiato il paese e dei loro comandanti che s’erano fatti benvolere da tutta la popolazione: fu così che quando il suo attendente, di none Cattani, cadde prigioniero nelle nostre mani, gli venne facile farci sapere ch’era disposto a trattare il rilascio del suo attendente in cambio dei due partigiani caduti nelle sue mani.

La proposta era naturale che sollevasse dissensi perché fino allora mai avevamo avuto contatti per operazioni del genere con le forze della repressione: lo stesso comando della Sesta zona, interpellato, espresse parere contrario alla proposta avanzata dal parroco del paese di farsi garante della riuscita dell’operazione di scambio. Qui però era in gioco la vita di due partigiani che da un momento all’altro potevano essere tradotti a Genova dove li avrebbero fucilati, sicché il comandante col commissario della Cichero furono d’accordo di non tener conto delle obiezioni e senz’altro fissarono la data dell’incontro.

Intanto il Cattani, affidato ad un distaccamento, non aveva tardato ad ambientarsi: il nuovo sistema di vita basato su di una disciplina che i partigiani si erano liberamente imposta, l’aveva profondamente colpito e ora chiedeva di far parte anche lui della nostra divisione: fu così che si decise che avrebbe seguito il commissario e si sarebbe tenuto in disparte, pronto ad accorrere se l’avessero chiamato.

***

Il maggiore si presentò nel punto convenuto, che era in una zona, nei pressi di Alpe, da dove si domina tutta la valle: era accompagnato dal suo aiutante, il tenente Ebner, triestino, e dal parroco di Gorreto; e subito tenne a precisare che si era deciso a quell’incontro unicamente per trattare la liberazione del suo attendente; in cambio era disposto a liberare i due partigiani prigionieri.

«D’accordo sul cambio» fece il commissario. «Nel caso però che il suo attendente volesse rimanere con noi…».

«Impossibile!» l’interruppe il maggiore. «Fatemelo vedere e che me lo dica lui…».

 A questo punto il Cattani balzò fuori dall’anfratto in cui si teneva nascosto e corse a gettarsi tra le sue braccia, ma quando sentì da lui che era venuto a liberarlo, senza esitazioni dichiarò di sentirsi già libero e ormai aveva scelto il suo posto sui monti, con i garibaldini.

Il maggiore lo fissava sbalordito, incapace di dire qualcosa: ma poi, improvvisamente reagì e, afferratolo per le braccia e suotendolo, proruppe: «Che t’hanno fatto, disgraziato? O ti hanno stregato…».

E il Cattani, senza scomporsi, sommessamente, ma con fermezza: «Mi hanno aperto gli occhi, signor maggiore, mi hanno aperto gli occhi…». Intanto si stava svincolando e poi a piccoli passi s’andava scostando.

Dal canto suo, il maggiore pareva che non riuscisse a capacitarsi di quanto era successo, e quando il commissario gli si fece accanto e prese a parlargli della guerra che, con lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, era ormai decisa e dunque ch’era assurdo combattere i partigiani, manco pareva ascoltarlo e continuava a scuotere la testa, in silenzio. Allora il commissario insistette: perché ostinarsi a servire i tedeschi, farsi loro complice? Non si rendeva conto che la vera Italia era al fianco di quei «ribelli» ch’egli era costretto a combattere?

Sì, forse se ne rendeva conto, ma era talmente sconvolto da non poter ribattere e pose senz’altro termine all’incontro. Prima però di andarsene dichiarò che i due partigiani sarebbero stati liberati in cambio di due prigionieri tedeschi. Ciò che infatti avvenne l’indomani stesso.

Fu anche in seguito a questo scambio che il comando della Cichero dispose che ogni attività militare venisse sospesa, e così per un paio di settimane in quella zona si verificò una strana intesa con gli alpini che sempre in maggior numero cercavano di raggiungere i nostri avamposti, chiedendo di voler combattere con noi; e i loro ufficiali che se ne stavano quieti e tranquilli nel palazzo Centurione, senza osare allontanarsi, mentre noi ci guardavamo bene dall’attaccarli.

Aldo Gastaldi “Bisagno”, comandante della Divisione Cichero

Finché il comando tedesco si vide costretto a ritirare da Bobbio e da Gorreto i due battaglioni, l’Aosta e il Vestone, smistandoli a Torriglia e rinunciando così a presidiare la strada del Trebbia.

Al comando della Sesta zona tale decisione non mancò di suffragare la convinzione che la tattica perseguita dalla Cichero, quella cioè di aver sospeso l’attività militare per favorire la crisi del comando degli alpini, fosse stato un grosso errore. Convocò quindi il comandante e il suo commissario accusando duramente quest’ultimo di ingenuità, essendosi prestato al gioco del maggiore Paroldo che in questo modo aveva avuto la possibilità di sganciare le sue truppe senza subire ulteriori perdite.

Ma Bisagno, convinto com’era che la crisi degli alpini fosse stata provocata unicamente dalla convinzione che l’Italia per cui valeva la pena di combattere era quella dei partigiani, dichiarò di non poter rinunciare a un estremo tentativo. Si trattava di un’azione spericolata di cui lui stesso voleva incaricarsi: e cioè sarebbe sceso a Torriglia e, nella confusione provocata dall’afflusso dei due battaglioni alpini, avrebbe tentato di ristabilire un contatto col maggiore Paroldo.

***

Al comando della divisione per tre giorno non si ebbero più notizie del comandante: si sapeva soltanto che, di ritorno dalla riunione della Sesta zona, aveva voluto indossare la divisa di un alpino; e il commissario che gli era profondamente legato, ora viveva nell’angoscia, tra la pressione del comando di zona che insisteva di prendere un’iniziativa e il timore che qualsiasi cosa si facesse rischiava di compromettere l’esito della missione.

Finalmente dopo quattro giorni giunse la comunicazione che convocava il commissario a Costa Maggio, una località nelle vicinanze di Montebruno, in una piccola osteria a picco sul Trebbia: là poi il maggiore Paroldo e il suo aiutante Ebner si accordarono con Bisagno e il suo commissario perché quella notte stessa il battaglione al completo, con armi e carriaggi, raggiungesse Gorreto unendosi alle nostre formazioni.

L’indomani, 4 novembre, il comando di zona poteva diramare il seguente messaggio che poi venne ritrasmesso dalla radio alleata:

«Stamane, 4 novembre, nell’anniversario dell’armistizio che nella Grande Guerra l’Italia ha imposto all’esercito austro-ungarico, il maggiore Paroldo col suo battaglione alpino Vestone è passato nelle file della Divisione garibaldina Cichero.

Gli alpini hanno così ritrovato la vera Italia, quella Italia che combatte sui nostri monti per la libertà. 

Il comando della Sesta zona operativa saluta gli alpini del Vestone e plaude al loro gesto e alla ritrovata fraternità nel nome dell’Italia».

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